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Gli oggetti, tutti gli oggetti, trattengono e rilasciano energia. Tutta la materia è energia, vibrazione, movimento ed è modificata dall’energia che la trapassa, la de-genera, che la modifica in eterno, dall’interno e dall’esterno. Noi stessi siamo parte di questo movimento eterno. Come relazionarsi con gli oggetti, quindi? In infinite maniere, ovviamente. Ma un mistico, un’artista, un filosofo, non devono forse cercare negli oggetti qualcosa che vada oltre la loro forma, la loro funzione, la loro solidità, anche se da questa ognuno è costretto a partire? E forse, il punto di arrivo non è nuovamente una forma, una funzione, una solidità? Gli oggetti si ricreano, sia a livello energetico che culturale, ogni volta che qualcuno si pone davanti a loro come spettatore, come studioso, come manipolatore. Tutto è in perenne trasformazione, sempre, quindi anche gli oggetti, nonostante tutti gli sforzi che facciamo per archiviarli, “fissarli” con i restauri, con le protezioni, dando loro dei valori. Descrivendoli, quindi, gli oggetti assumeranno altri valori e più si descriveranno più perderanno energia, valore intrinseco. Più il concetto si stacca dalla forma, dalla funzione, dalla materia, dall’energia e più diventa altro dall’oggetto.

 Crediamo, quindi, che sia importante non avere aspettative, ne da chi guarda, ne tanto meno dall’oggetto. Allora perché mostrarli, chiederà qualcuno, perché salvarli, custodirli e pulirli? Proprio perché crediamo che questi oggetti vadano mostrati, non studiati, non catalogati, non restaurati, non “rinchiusi”, ma mostrati, senza aggiungere altro. Farlo senza alcuna informazione didascalica non è un atto neutrale, ma una scelta politica. Non è ricerca di oggettività, perché l’oggetto è fatto per buona parte da chi osserva.

Vogliamo rovesciare la volontà, farla tacere, cosi come l’illusione di una causalità.

Scegliere significa includere ed escludere. La scelta di salvare questi oggetti e conservarli è un modo di considerarli vivi di per sé.

Rappresentare è simulare. Una giungla di segni è l’universo. Un fraintendersi su tutto. Si sceglie anche la rinuncia. Cosa possono questi oggetti, adesso? Chi ri-definisce l’oggetto lo ri-costituisce, chi lo ha salvato lo ha già posto su un livello nuovo:  da spazzatura è divenuto simbolo stratificato. Lo stesso avviene con i corpi dei migranti. Li si rappresenta sempre, specialmente da un punto di vista mediatico. Ma in realtà non ci sono “Migranti”, “Clandestini”, “Turchi”, queste categorie vengono create per comodità politica e di linguaggio, lo stesso linguaggio che ci dà l’illusione di scegliere e definire, ma in realtà ci sceglie sempre. Il linguaggio è come una strettoia da dove non si può uscire mai, neanche con l’errore più grande. Si resta intrappolati in una gabbia dove si può dire solo quello che è dicibile. Prima si creano i migranti in senso fisiologico: hanno fame, sete, freddo, come animali in fuga da un mondo altro. Poi negli altri sensi: politico, culturale, mediatico, in quanto corpi che non dicono, muti, senza la possibilità di rivendicare secoli di colonialismo e imperialismo che ognuno di loro porta consapevolmente e inconsapevolmente dentro i polmoni, la testa, nelle gambe, sulle spalle. Le storie dei singoli vengono soffocate dalla cronaca dei numeri, dalla rappresentazione di stato e questo essere corpi tutti uguali, con gli stessi bisogni, fa diventare chiunque arrivi a Lampedusa animale/merce. Non c’è spazio per l’individuo nella rappresentazione, anche perché complicherebbe tutto. Ogni individuo a prescindere se in viaggio o meno, se fermo o in movimento, è irrappresentabile, se non con la menzogna o come processo di continuo mutare. Non si rappresentano gli individui, se non come eccezioni. Dai loro oggetti si pretende invece una voce, si pretende che parlino, o meglio che vengano parlati, che siano i mezzi della propria voce, del proprio pensiero, del proprio metodo, della propria cultura. Con questo processo si vorrebbe confezionare l’oggetto, dargli non solo una voce, ma anche un messaggio. L’oggetto invece parla muto, dice messaggi intraducibili, anche qui continui fraintendimenti. Anche qui continue scelte. Anche qui qualcosa manca sempre. Queste trappole sono ovunque, pronte a scattare al minimo passo falso. Non vogliamo dire con questo che studiare gli oggetti, identificarli e rinominarli sia sbagliato. Non sappiamo cosa è giusto e sbagliato. Non sappiamo cosa debbano fare gli altri. Sappiamo qual é il percorso che vogliamo fare con questi oggetti (che non è mai definitivo). Ognuno ha le proprie motivazioni, argomentazioni e tesi da portare avanti.

Noi stiamo semplicemente cercando la strada che ci ha portato in quella discarica.

Collettivo Askavusa

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7 risposte a “PORTO M

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